L’insegnamento nel carcere – Una riflessione tra coraggio e amarezza

Insegnare in galera

di Lucia Liggieri, insegnante del CPIA di Messina presso la Casa Circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto


Quasi tutti i docenti che lavorano in carcere appaiono avviliti, scettici, spesso sarcastici sul loro lavoro, e al tempo stesso stranamente orgogliosi. Facili alle lamentele, si trovano a lavorare tra due istituzioni – la scuola e il carcere – con leggi e regole diverse, a volte inconciliabili, con i guai e i problemi che ne derivano.

Carenza di spazi, mancanza di mezzi e di materiali didattici sono il problema cronico dell’insegnamento recluso. Normalmente sono adibite ad aule scolastiche delle celle, si fa lezione in mezzo a urla, cancelli che sbattono, detenuti che passano spesso disturbando o che instaurano senza nessun permesso conversazioni con chi cerca di seguire le spiegazioni. L’arredamento è essenziale con banchi e sedie spesso sgangherati e qualche armadio ridotto anche peggio in cui è meglio non custodire nulla.

L’accesso dei detenuti alle lezioni è ridotto. Anche in penitenziari affollati con un grande bacino di potenziali studenti, quelli che frequentano sono una minoranza, spesso per ragioni di ordine logistico e burocratico. In molti casi, se un detenuto lavora non può andare a scuola; quando un detenuto viene obbligato a scegliere è pressoché naturale che scelga il lavoro. Verso la scuola l’istituzione carceraria ha un atteggiamento ambivalente: da una parte le necessità scolastiche (aprire le celle, gli spostamenti interni degli studenti verso le aule, a orari fissi) comportano carichi di lavoro supplementare per gli agenti; dall’altra la scuola torna utile al carcere perché rappresenta una delle più importanti attività trattamentali. Senza dimenticare che il carcere ha un disperato bisogno d’impiegare in qualche modo l’immensa quantità di energia umana inutilizzata e altrimenti priva di sfogo.

Tra gli studenti c’è un’alta percentuale di abbandono, dovuta a perdita di interesse, trasferimento da carcere a carcere, processi, incompatibilità con gli orari imposti dal carcere stesso o con altre attività considerate più convenienti, scarcerazione, malattia, autolesionismo, depressione e morte.

Un insegnante si ritrova in classe la gente più disparata, sforzandosi di trovare un comune denominatore, un punto d’incontro nascosto, qualche volta irrealizzabile. I livelli culturali, l’estrazione sociale e geografica, le competenze, l’età, i percorsi scolastici, le tipologie caratteriali e dei reati commessi sono incredibilmente disomogenei. Costituiscono un problema, ma anche uno degli aspetti più stimolanti di questo lavoro.

Un professore in prigione deve improvvisarsi medico, terapeuta, scrivano, guardia, prete, assistente sociale, psicologo, genitore, avvocato, assumendo via via uno di questi ruoli a scapito di quello per cui viene effettivamente pagato. È spesso una drammatica questione di priorità: se si ha uno studente in crisi, bisogna insistere a insegnargli le frazioni oppure ascoltare il suo sfogo e magari impedire che, alla prima occasione, provi a impiccarsi?

Il parere degli insegnanti conta poco o nulla nelle decisioni riguardo la detenzione. Ciò malgrado, gli insegnanti sono di gran lunga le persone che conoscono meglio i detenuti-studenti, dato che trascorrono mesi, talvolta anni, insieme a loro. Alla fine, però, a giudicare se un detenuto potrà ottenere benefici e sconti di pena saranno persone che lo avranno visto o ci avranno parlato poche volte, se non una volta sola, sulla base di fascicoli e incartamenti anonimi che rivelano poco della persona.

Nel carcere l’insegnamento viene svolto in condizioni limite. Non si sa mai quello che può capitare; può accadere semplicemente che un alunno aspetti che vadano via tutti per cominciare a parlarti di sé, a piangere e a baciarti le mani, o può capitare di sentire quello strano grido che implora aiuto perché qualcuno si sta suicidando. Ma è meglio dimenticare, perché in carcere sono cose che “possono succedere”. Può capitare, in reparti speciali, di assistere alla crisi di qualcuno che ha deciso di smontare la cella. Lì devi essere veloce a capire che è più conveniente darsela a gambe. Può capitare, mentre si sta per andare in aula, di sentire rumori concitati alle tue spalle e di ritrovarsi in mezzo alla polizia penitenziaria che accorre il più velocemente possibile a sedare qualche rissa. Ma può anche capitare di sentire l’orgoglio, il puntiglio, la dedizione verso questo lavoro, persino in insegnanti logorati da anni di mestiere: quelli che in galera chiamano “recidivi”; quelli che non mollano mai; che nonostante tutto ancora ci credono.